Un’altra leggenda appende gli scarpini al chiodo. Lascia Robbie Keane: sarà il vice di McCarthy in Nazionale

Simone Dell’Uomo
Tallaght. 8 luglio 1980. Nasceva una creatura che ben presto avrebbe scritto ineluttabilmente la storia del calcio irlandese. No, non parliamo di George Best, non parliamo dell’Irlanda del Nord. Sarebbe ingiusto, sarebbe ingrato. Parliamo di una figura unica nel movimento calcistico dell’Eire, probabilmente l’istituzione del calcio irlandese fatta persona. Parliamo di Robbie, Robbie Keane. Perchè vedete ieri, nella magia di quella scienza inesatta quale resta il football, non è stata soltanto la serata di Tottenham-Inter, ma è stata anche la giornata in cui una leggenda che storia nella storia è un ex di entrambi le compagini ha appeso ufficialmente gli scarpini al chiodo. A 38 anni. Lascia il calcio un professionista a cui la stampa internazionale non ha mai forse riconosciuto le qualità straordinarie, le qualità di una delle ultime mezze punte che nel tempo s’è saputo trasformare in un formidabile fantasista, l’ultima metamorfosi di un fortissimo numero 7 diventato magico numero 10. Parliamo di un fenomeno d’altri tempi, che gli amanti del british football impararono ad amare ed apprezzare per le sue giocate, per i suoi diagonali, per la sua passione, per la sua classe abbinata alla tenacia, per i suoi inserimenti ma soprattutto per le sue esultanze, divenute ben presto marchio di fabbrica di ogni videogioco dei primi 2000. Virata laterale, capriola e fucilate al pubblico, il marchio di fabbrica di Robbie Keane. Dopo 883 partite l’eterno Robbie ha detto basta, 393 gol tra i professionisti un bottino estremamente soddisfacente per appendere gli scarpini e accettare la chiamata del suo Mick McCarthy e diventare a tutti gli effetti il suo vice in Nazionale. Già, il suo Eire, il suo completo verde, il suo profumo di trifoglio. Un cuore che batte forte, il cuore pulsante del popolo verde che lui ha brillantemente e fascinosamente incarnato per quasi un ventennio. 146 presenze in Nazionale, molte delle quali da capitano, per totalizzare ben 68 centri internazionali. Signori parleremmo già di un fenomeno, ma non si passa alla storia o si entra nel cuore della gente solo per statistiche. Quel ragazzo ha rappresentato icona, passione, sentimento. Un collegamento tra generazioni, un punto di riferimento per chiunque, col suo volto sparso e promosso negli angoli di Dublino. In Nazionale ha scritto la storia ai Mondiali di Corea e Giappone 2002, col pareggio all’ultimo minuto castigando di furbizia Oliver Kahn e spedendo l’Irlanda agli ottavi di finale. Ha silenziato Amsterdam nel 2005, ha silurato Buffon a Bari nel 2009, ha trascinato i suoi compagni alla conquista degli Europei del 2012. Una carriera fantastica. Ma la notte più bella e più amara allo stesso tempo resta quella di Parigi, dove al Parco dei Principi l’Irlanda del Trap aveva rimontato la Francia allo spareggio per Sudafrica 2010. Solita fuga offensiva di Duff sulla sinistra, cross fuori dai blocchi mentre tutti (attaccanti e difensori) attaccano ingenuamente l’area di rigore, pallone sul limite dei 16 metri per l’astuto Robbie che in diagonale batteva Lloris e rianimava le speranze del popolo irlandese follemente emigrato in massa sugli spalti di Parigi. Segnò poi Gallas, sfruttando un assist col braccio di Thierry Henry, spesso portato ad esempio dalle generazioni ma un calciatore che quando poteva scavalcare il limite della legalità lo faceva senza porsi troppe domande morali, anche annientando ineluttabilmente il sogno di quei 6000 irlandesi scesi sbarcati in Normandia. Fu così che Trap e Tardelli furono costretti a congelare il loro sogno, riscattandosi due anni dopo portando l’Eire agli Europei. Una squadra, una generazione (quella di Duff, Doyle, O’Shea, Shay Given) sempre sulle spalle di Robbie, trascinata da Robbie Keane. Sempre Keano partecipò a Francia 2016, chiudendo una carriera quasi ventennale indossando orgogliosamente i colori del trifoglio. Keano ha incarnato generazioni, rappresentando l’essenza delle seconde punte, un ruolo sempre più in via d’estinenzioni nei moderni e sempre più frequenti che non prevedono questa posizione. Sempre più 4-3-3, sempre più 4-2-3-1. C’è spazio per registi, trequarti, centrocampisti dinamici, ali e mezzali, ma sempre meno per la classica mezza punta da 4-4-2. E Robbie fu talmente grande che per il bene della sua Nazione, che aveva assolutamente bisogno di lui, riuscì a resistere alla selezione naturale e trasformarsi in numero 10, tanto era grande la sua classe. La storia di Robbie è tremendamente affascinante: parliamo di un bambino cresciuto giocando nel classico club del paese, il Crumlin, a pochi passi da Tallaght. Tallaght per l’appunto, la cittadina delle sue origini, una cittadina sud-ovest di Dublino che vide i primi passi calcistici di un bimbo che già maturava ambizioni importanti. Quali ambizioni? Beh naturalmente quelle di oltrepassare prima la Baia di Dublino poi il Mare d’Irlanda per diventare da grande un calciatore professionista sognando di giocare per quel Liverpool del suo idolo, un altro Robbie, Robbie Fowler, il suo poster in camera. Era complicatissimo, d’altronde con quel cognome lì, Keane, come Roy, non sarebbe stato facile, per niente. In Irlanda esisteva solo Roy Keane, emblema degli anni 90 del secondo e del terzo ciclo Ferguson, capitano storico del Man United. Ma il ragazzo non aveva paura, per niente. Era spavaldo, eccome. Determinato e consapevole delle sue potenzialità. Sapeva tagliare le difese avversarie come nessun altro. Robbie sviluppò prima degli altri, proprio l’opposto di Lionel Messi. Aveva già maturato la prima peluria a 10 anni, sembrava già grande, sembrava già pronto. Era già grande il ragazzo. Non solo fisicamente, ma mentalmente. Era già pronto. Era già sornione. Era già più furbo e lesto dei lenti e rocciosi difensori anni 90. E Mark McGhee se ne accorse, eccome se se ne accorse. Molti di voi si chiederanno chi diavolo sia Mark McGhee. Domanda lecita, assolutamente. Mark è stato semplicemente uno scozzese vero, che amava pub e birra a fiumi, che amava le serate con gli amici all’interno di locali d’epoca quando fuori spirava forte e tenebroso il vento del Mar del Nord. Mark, da scozzese vero, non aveva paura di niente. E nella vita, come la sua altezza inferiore al metro e 80 consigliava, riuscì a far di mestiere la seconda punta. Sì, la seconda punta, quella che nel calcio del secolo precedente era colei che girava attorno a quello che in sudamerica tuttora definiscono il puntero, il centravanti classico, potente, grosso, aereo. Non aveva paura di niente, nemmeno di emigrare all’estero, come quando nell’84-85 disputò una stagione all’Amburgo. Ma tra Newcastle e Celtic non riuscì ad esplodere. Nemmeno da allenatore ebbe particolare successo. Ma fu chiave, eccome, estremamente chiave, per l’ascesa, un’ascesa assolutamente e meravigliosamente prematura. Quella di Robbie Keane. Sì perchè McGhee fu dal 95 al 98 allenatore dei lupi d’oltremanica, i Wolves. Storicamente nobili decaduti. Mark non riuscì a completare il ritorno in Premier, ma lanciò un talento che avrebbe calcato i campi più prestigiosi del vecchio continente. Robbie era arrivato a Londra a 15 anni, nel 95. Nell’estate del 97 arrivò la chiamata che sognava, quella del calcio professionistico. Aveva appena 17 anni e già era nel giro della prima squadra, quella dei Wolves, all’epoca come detto ancora in First Division, l’attuale e più blasonata Championship, per l’appunto Serie B inglese. E Mark intravide le stesse qualità che aveva lui da calciatore: bassetto, rapido, pungente, determinante. Quel ragazzo in allenamento faceva diventare matti tutti, ma proprio tutti. Quel richiamo, come fosse specchio della sua giovinezza, era troppo forte. E un giorno Mark sussurrò all’orecchio di Robbie: “Forza ragazzo, levati la pettorina, allacciati i parastinchi. Adesso è ora di prendere i calci veri, non quelli d’allenamento”. Robbie, per nulla intimorito, prese la balla al balzo e si gettò nella mischia. Giocate e gol a grappoli, il Molineux tornava a sognare. Non fu abbastanza perchè nel 98 McGhee lasciò, colpa di risultati altalenanti. L’ambiziosa piazza dei Wolves esigeva il ritorno in Premier. E proprio quell’anno un ragazzino ancora minorenne divenne il miglior marcatore della squadra con 16 gol in First Division, ruotando attorno ad uno Steve Bull sul viale del tramonto ma che da quelle parti continuano inesorabilmente ad amare tanto da dedicargli il nome di una tribuna del nuovo impianto. Steve Bull sapeva ancora far la differenza a quei livelli, sapeva ancora buttarla dentro, d’altronde le polverose aree di rigore erano la sua essenza. E proprio la sua fisicità favorì le caratteristiche di Robbie, che da giovane e astuta volpe imparò ben presto a sfruttare i varchi creati dal grande Steve e purgare le difese avversarie. 16 gol, tantissimi. Così tanti da richiamare le sirene della Premier, precisamente da Coventry. Gli Skyblues vivevano gli ultimi anni nella massima divisione, prima di sprofondare inesorabilmente nelle torbide acque delle leghe inferiori dove tuttora amaramente continuano a navigare. E Robbie non si fece pregare e continuò a segnare, ma stavolta in Premier. Altra chiamata, ulteriore ascesa: stavolta arrivò dal calcio più importante del 2000, quello italiano. Era Massimo Moratti, il presidente dell’Inter. E Robbie, che aveva due attributi da vendere, non esitò. Partì, direzione Milano. Soffrì maledettamente la concorrenza di Zamorano, Recoba, Vieri, Hakan Sukur, tutti nomi che nelle gerarchie di Lippi prima e Tardelli poi venivano avanti in un’Inter in assoluta transizione. Nemmeno un anno e fu tempo di rifare le valigie, si torna a casa, si torna in Premier. Era il grande Leeds United, determinato quasi come ai tempi di Don Revie a conquistare l’elite del calcio europeo. Ma la coppia australiana composta da Harry Kewell e Mark Viduka era troppo ben assortita. Due esperienze negative? Nemmeno per sogno, perchè se hai un carattere forte come quello di Robbie riesci a trarre forza, insegnamento e lati positivi persino dai passaggi più oscuri del percorso. In quegli anni di crescita difficoltosa, Keane riusciva comunque a brillare in Nazionale, quando in Corea e Giappone riuscì a castigare la Germania e conquistare le prime pagine dei tabloid britannici. Era l’Irlanda di Mick McCarthy, che oggi è tornato a sedere sulla panchina dell’Eire. Nel 2003 Robbie raggiunse la sua terra promessa, quella dove esprimere al massimo le sue potenzialità. Arrivò infatti la chiamata del Tottenham Hotspur, un club importante, importantissimo ai giorni d’oggi, un club dalla grande tradizione che però continuava a vivere dagli inizi degli anni 90 una serie interminabili di annate nè carne nè pesce. Fu amore a prima vista: grandi giocate, grandi assist, grandi guizzi e fenomenali tagli. Suggerimenti e finalizzazione, questo ragazzo aveva tutto. Era un capo popolo, anche perchè lui era nato per prendersi responsabilità ed incarnare in campo lo spirito del club del Nord di Londra. Passione e classe, due concetti che riassumono infatti i 136 di storia del Tottenham Hotspur. Robbie sapeva trovarsi a meraviglia con qualsiasi altra attaccante, tanto erano grandi astuzia e qualità. E Keane contribuì all’ascesa di un club che con Martin Jol in panchina tornava a mostrare finalmente mire espansionistiche europee. Dapprima con la Coppa Uefa, poi con la qualificazione in Champions maledettamente sfiorata col Lasagna Day. Già, suona strano ma avete capito bene, il Lasagna Day. Il giorno in cui Robbie e ben 8 dei suoi compagni di un Tottenham quarto in classifica furono quasi avvelenati dal cuoco tifoso dell’Arsenal prima dell’ultimo match di campionato 2005-2006. I cannoni salutarono brillantemente Highbury con un sonoro 3-0 al Wigan, gli Spurs che non si reggevano in piedi reduci da una nottata passata quasi interamente al bagno persero 2-1 all’Upton Park col West Ham. Scavalcati dagli acerrimi rivali sul filo del rasoio, un’umiliazione. Quel Tottenham non seppe mai reagire negli anni successivi e malgrado l’arrivo di Berbatov, col quale Keano costruì una delle partnership più belle di sempre, vide l’esonero di Jol. Arrivò Juande Ramos, con cui Robbie alzò finalmente il suo primo trofeo. Parliamo della Carling Cup, la coppa di Lega, tuttora l’ultimo trofeo inserito in bacheca dagli Spurs. Fu un successone per Robbie, che appagato dal trionfo e concepito il fatto che in classifica gli Spurs non riuscivano più a raggiungere vette europee, decise di trasferirsi in un grande club quando arrivò la chiamata della sua squadra del cuore. Per alcuni tifosi del Tottenham fu una sorta di tradimento, ma Liverpool, Anfield, il colore rosso tanto amato dalle sue parti e la maglia della sua infanzia costituirono una fonte d’attrazione troppo forte per dir di no. Fu amore a prima vista? Probabilmente sì, ma fu una storia d’amore paragonabile alla fiamma più scintillante di un cammino tanto bella quanto fragile. Si spense subito. Si spense subito perchè Robbie, che da giovane iniziò a sviluppare prematuramente, iniziò allo stesso modo ad invecchiare prematuramente. Invecchiare calcisticamente, ovviamente. Robbie, da sempre una vecchia volpe astuta, seppe rinventarsi: non era più un 7, stava diventando un numero 10. Abile tra le linee, visione di gioco straordinaria, perfetto per mandare a porta un centravanti lanciandolo a rete con l’ultimo passaggio. Ma Benitez giocava col 4-3-3, un modulo che non prevede seconde punte, e Keano a sinistra faticava a rincorrere il terzino destro avversario. Come se non bastasse Torres non aveva bisogno di un assistman, dal momento che rappresentava probabilmente il centravanti più completo e moderno del periodo, il primo a lanciare a rete e fornire assist ai compagni anche agendo da numero 9. Così i 24 milioni spesi per assicurarsi le sue prestazioni finirono per risultare un mezzo fallimento. Già, mezzo, perchè poi tornò al Tottenham dopo soli 6 mesi per la metà, 12 milioni. Ma la magia che legava Keane al club del Nord di Londra era sfumata, se ne era ormai inesorabilmente andata perduta col passaggio al Liverpool. Ed a differenza di un club in ascesa grazie alla crescita spaventosa di due talenti come Modric e Bale, da lì iniziò la sua parabola discendente, punito da Redknapp quando con David Bentley abbandonò un ritiro per una festa in Irlanda. Harry lo cacciò, ma Keano conquistò il Celtic Park e i tifosi biancoverdi. Furono mesi molto positivi per lui, un calciatore di livello troppo più alto rispetto alla Scottish League. Ma lui voleva fortemente il ritorno in Premier: andò al West Ham, dove giocò poco e complice i suoi infortuni la squadra retrocesse; andò anche all’Aston Villa, con cui tornò a brillare a tratti, come la meravigliosa doppietta contro i suoi Wolves. Ormai purtroppo era chiaro a tutti: Keano aveva perso velocità e smalto, non reggeva più i ritmi di una Premier in forte ascesa. Archiviò definitivamente il capitolo e nel 2012 fece i bagagli direzione America, lo aspettava l’ultima grande sfida della sua carriera: i Galaxy di Los Angeles. Stipendio importante, campionato perfetto per sparare gli ultimi colpi, calciatore perfetto per lanciare a livello internazionale il calcio statunitense. Fu il secodo grande big del calcio europeo a trasferirsi a Los Angeles e sposare il progetto Galaxy: prima Beckham, dopo di lui Steven Gerrard e Zlatan Ibrahimovic. A 36 anni non era ancora soddisfatto, provò anche l’India, sintomo di una passione infinita. Con l’Atletico Calcutta ha chiuso la sua carriera, l’ufficialità è arrivata ieri. Cala dunque il sipario su un calciatore dai numeri importanti nei club, anche se avrebbe potuto aver più successo e vincere di più con un pizzico di fortuna e con scelte diverse, ma soprattutto su un professionista dai numeri pazzeschi in Nazionale, l’idolo indiscusso del movimento calcistico della Repubblica d’Irlanda. Keano ha lasciato con un post strappalacrime sul suo account Instagram, senza rimpianti, orgoglioso di ciò che ha scritto sul campo, e di come l’ha scritto. 20 lunghi anni di un’eterna istituzione. Come dicevo poteva vincere di più, poteva strutturare meglio la sua carriera dei club, ma nelle sue scelte ha sempre prevalso la passione, la stessa che lo portò a giocare ad Anfield, Celtic e Villa Park. Non è passato alla storia per i club in cui ha militato, ma per il suo Eire sì, eccome. Ed è così che novembre 2018 sarà ricordato come il mese dei grandi ritiri. Dopo Joe Cole, Didier Drogba e Rafael Van Der Vaart, un altro illustre calciatore lascia il calcio giocato e appende gli scarpini al chiodo. Robbie Keane allenerà l’Irlanda al fianco di Mick McCarthy, il tecnico che per primo lo lanciò anche in Nazionale. Non avrebbe potuto chiudere nel modo più bello Robbie, sempre nel segno del verde, bianco e arancio. 20 anni straordinari. Per l’eterno Keano chiusa una porta si apre un portone. Sempre, meravigliosamente, eternamente nel segno del trifoglio.
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