Storia di un piccolo Bayern e delle spalle di Dusan Vlahovic

Nella foto: Vlahovic (ph: Fornelli/Keypress)

di Dario Ricci *

Un piccolo Bayern Monaco. Visto dalla bandierina del calcio d’angolo, il modello da perseguire e poi raggiungere dal Beppe Marotta che aveva disegnato l’architettura vincente della Juventus prima di Antonio Conte e poi di Massimiliano Allegri, era quello: creare un club solido finanziariamente fuori dal campo, forte tecnicamente sul rettangolo verde, capace di monopolizzare (salvo inevitabili, ma rare, eccezioni) il mercato e il palmares nazionale, per giocarsela poi (quasi) alla pari con le potenze calcistiche continentali, cioè il Bayern Monaco “vero”, i club inglesi e la “triade” spagnola (Real, Barcellona e Atletico).

Poi venne l’infatuazione di (parte della) Juventus per Ronaldo, e sappiamo tutti come è andata: CR7 ha prodotto un bel gruzzolo di gol, ma è stato gestito con un provincialismo sorprendente ed estraneo alla cultura bianconera e forse pure a quella sabauda, venendo esaltato (non che poi il soggetto in questione non sia capace di farlo da sé…) come “salvatore della patria” (e della squadra) in club che pure con ben altro pragmatismo aveva sempre gestito le sue stelle, da Sivori a Platini a Baggio e Del Piero. Da lì la rottura con Marotta, poi con lo stesso Allegri, richiamato infine dopo i temerari “esperimenti” chiamati Sarri e Pirlo. Mescolate al tutto la “chimera-Superlega” e una pandemia globale, e otterrete e l’humus in cui attecchisce non solo l’affare Vhahovic-Juventus, ma anche quello non banale Gosens-Inter.

Tutt’e due infatti sembrano diretta conseguenza della trasformazione e pure dei singulti vissuti dalla Vecchia Signora negli ultimi tre anni. Da un lato, Il vecchio-nuovo gruppo dirigente bianconero che piazza un colpo che punta a riportare in cassaforte i gol di Ronaldo, ma con un giocatore talentuoso (vedremo se campione) e futuribile; dall’altro, Marotta che continua (pur tra gli ambivalenti messaggi che arrivano dalla proprietà cinese sotto il profilo economico-finanziario) a costruire il suo “piccolo Bayern”, con orizzonti solo per ora più misurati di un tempo, e con la fondamentale differenza del colore della maglia (stavolta nerazzurra).

Progetti entrambi – quello bianconero e quello nerazzurro – che accendono dibattiti e fantasie. Interessante ora vedere subito cosa accadrà in casa Juventus, sotto il profilo squisitamente tecnico, ma anche nella gestione dello spogliatoio. L’arrivo di Vhahovic dalla Fiorentina è un chiaro messaggio a Morata e Dybala, e se il primo sembra già più vicino a quel Barcellona a cui sembrava approdato appena una decina di giorni fa, l’addio immediato della Joya appare più difficile, ma altrettanto complesso il rinnovo di contratto a cifre più contenute ipotizzato dal club dopo un’annata finora minata da infortuni e prestazioni sottotono dell’argentino (con inevitabile contorno di chiacchiere, stoccate e reciproche polemiche distanza tra giocatore e club).

In questo contesto, molto (se non tutto) dipende da Massimiliano Allegri: alla giornata numero 23 del campionato, la sua Juventus è un progetto minimalista, che ha impiegato cinque mesi giusto giusto per consolidare le proprie fondamenta (e di quanto ce lo diranno le sfide con Verona, Atalanta e Torino in arrivo, non i big-match in cui i bianconeri si rintanano accucciati nel loro bunker difensivo, in cerca poi di estemporanee sortite nell’altrui metacampo). La Juventus targata Vhahovic deve recuperare 20 metri di campo e parecchie tonnellate di fiducia e autostima, quelle dragate dall’idrovora emotiva CR7 e che ora devono essere ricostruite e restituite ai singoli, e quindi al gruppo. 

Dal raggiungimento (o meno) di questo obiettivo capiremo non solo la bontà dei piedi, ma soprattutto la solidità delle spalle del 21enne bomber serbo, che ha deciso di seguire il sentiero tracciato da Roberto Baggio e Federico Chiesa

*giornalista di Radio24-IlSole24Ore         

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