Massimo Ciccognani
Probabilmente sono la persona meno adatta per scrivere qualcosa di Josè Mourinho perché, non ne faccio mistero, sono un suo accanito tifoso. Da sempre. Josè è una storia, una sentenza: cinque finali, cinque vittorie. L’ultima, dodici anni fa al Bernabeu alla guida dell’Inter dove battè per 2-0 il Bayern Monaco. E per rivedere un trofeo in Italia, c’era bisogno di rivedere in panchina lo Speciale. C’è una frase che mi ronza nelle orecchie dal 4 maggio dello scorso anno, quando la Roma annunciò l’ingaggio di Josè Mourinho. “No soy mejor que nadie, però nadie es mejor que yo”. Appunto, è semplicemente il migliore. Ha vinto al primo colpo, ha riportato un trofeo nella capitale dopo 14 anni. E ha pianto, lacrime di gioia, sentite, sincere, quelle che vengono dal profondo del cuore. La sua anima è in perfetta simbiosi con la gente romana e romanista. E ha riscritto la storia perché le finali, non si giocano, si vincono. E lui le ha sempre vinte. Personaggio unico, semplicemente straordinario, al quale i suoi ragazzi hanno tributato una festa fuori dal comune, invadendo la sala conferenze dove Josè stava parlando, inondandolo di champagne. E poco importa che quel gettito di gioia, gli abbia mandato fuori uso cellulare e orologio. E’ stato il segnale di un ringraziamento da parte della squadra che ha creduto in lui, soprattutto nei momenti bui e difficili, quando sarebbe bastato poco per far crollare il castello che Josè aveva appena cominciato a costruire. Se li è abbracciati tutti, indistintamente, sapendo che sul prato di Tirano hanno dato tutti oltre la logica del 100 per cento. Una squadra stremata dalla fatica, perché nessuno ha giocato tanto quanto la Roma. Gli occhi spiritati dei suoi, che seguivano con lo sguardo lo Speciale che continuava a dare indicazioni. Verso il trionfo. Sul campo ha pianto, si è abbracciato con Ceferin, ha fatto con la mano il segno del cinque, la manita, quante le sue vittorie in campo europeo. Si è abbracciato con Dan Friedkin che a Tirana ha capito, magari ce ne fosse bisogno, di aver preso non uno qualsiasi, ma un extraterrestre, capace di ribaltare la Roma pavida che al traonto della stagione sapeva solo perdersi, prendendo imbarcate e umiliazioni. Con lui un’altra storia. Ha trasmesso carattere, una forte identità, di gioco, di testa. E ha vinto. Si è abbracciato con la sua gente, unica, una famiglia come l’ha definita Mourinho. Perché un conto è vincere da favoriti, come era accaduto allo United, ma vincere con Porto, Inter e Roma, ha un sapore diverso, soprattutto qui nella Capitale, dove non c’è abitudine a vincere. Lui ha cambiato anche quella. Il futuro, di Josè e della Roma, è appena cominciato, perché Tirana deve essere un punto di partenza. Perché Josè non sarà il migliore, ma nessuno è migliore di lui.