Addio a Mario Corso, il mancino baciato da Dio

Alessandro Miele


C’era una volta la Grande Inter, quella di Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Peirò, Suárez…Corso.
Veniva nominato per ultimo perché, allora, la formazione si leggeva in base al numero di maglia e, i titolari, scendevano sempre in campo dall’1 all’11.
Lui, per farla breve, era un dieci targato da undici.
Lo si riconosceva, soprattutto, da quei calzettoni arrotolati, quasi un omaggio al rivale che militava nei rivali di sempre, quell’Omar Sivori che in quegli anni ammaliava la Torino bianconera. Quando se lo trovò di fronte, osò addirittura fargli un tunnel: hoplà e via. E, come l’argentino, fece del proprio sinistro un’arma letale. Usava pochissimo il piede destro mentre con il mancino faceva, semplicemente, ciò che voleva.
Visione di gioco impeccabile, corsa a testa alzata e via a pennellare assist per i suoi compagni. E poi quelle punizioni, a fogliamorta che qualcuno disse inventò Didì al Fluminense (a folhaseca): Corso le esportò in Italia e ne fece un marchio di fabbrica.
Non aveva un ruolo predefinito: non era una seconda punta, neanche un esterno, men che meno un centrocampista. Oggi, più opportunamente, lo definiremmo trequartista. 
È stato uno dei più limpidi talenti di quella generazione azzurra, forse a volte troppo discontinuo, ma un piacere per gli occhi e per il palato. Non a caso, un certo Pelè, ne chiese più volte al suo Santos l’acquisto ma lui, all’Inter, era visceralmente legato e vi dedicherà l’intera la carriera prima di chiudere, dal ’73 al ’75, con la maglia del Genoa.

Chi lo ha visto giocare ricorderà quel piede sinistro, tanto delicato e affascinante quanto tremendamente doloro per gli avversari. E quando la nazionale israeliana, nel 1961, se lo trovò davanti, il commissario tecnico Gyula Màndi dirà malinconico «Siamo stati bravi ma ci ha battuto il piede Sinistro di Dio».

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