Il Mancio, le telefonate e la strada smarrita verso il Qatar

Nella foto: Roberto Mancini (Foto Gino Mancini)

di Dario Ricci*

La torta rancida è servita. Che poi – come legge metafisica delle ricette mal riuscite impone – non mai o solo problema di ingredienti, ma di proporzioni. Quindi se dovremo piegarci alle forche caudine dei playoff per andare a Qatar2022 e non saltare così il nostro secondo mondiale consecutivo, non è tutta colpa dei rigori sbagliati di Jorginho (il cui Pallone d’Oro è ben ancorato ora in fondo al Tevere, a fianco probabilmente di quello plastificato calciato dagli undici metri nei minuti finali della sciagurata sfida dell’Olimpico con gli elvetici), e neppure degli infortuni, o dei limiti del calcio italiano, o del senso di appagamento dopo la sbornia degli Europei, o di Mancini che non ha visto l’iceberg che si stava pericolosamente avvicinando alla prua di Azzurra. E’ un mix, appunto di tutte queste cose, e che le proporzioni appunto ognuno le misceli di per sé, secondo calcoli e convinzioni, come avviene proprio nella preparazione del più amaro dei cocktail.

Vista dalla bandierina del calcio d’angolo, la deriva che stava disegnando Azzurra era apparsa non certo prevedibile, ma almeno intuibile: restio da sempre a tuffi nelle patrie fontane e a caroselli su improbabili decappotabili fin de siecle, all’osservatore calciangolista il piede era iniziato a tremare diverse settimane fa, precisamente alla notizia dell’infortunio che avrebbe impedito a Marco Verratti di prendere parte al duplice impegno contro elvetici e nordirlandesi. Sentimento alimentato dalla consapevolezza che – come già sottolineato in questa sede – l’Europeo lo si era vinto con gioco e convinzione, anche e soprattutto (scorrendo i gelidi tabellini) con un vantaggio di appena due rigori (sì proprio due, amara ironia della sorte…) sull’agguerrita concorrenza. Insomma, l’Italia del bel gioco e del gruppo da favola plasmato dal Mancio e dalla “sua” Sampdoria, aveva vinto con un allegriano corto muso, cioè con margine esiguo, benché straordinariamente meritato, sulle rivali.

In sintesi: questa Azzurra (che è figlia di un lavoro straordinario, cioè letteralmente fuori dall’ordinarietà dell’attuale calcio italiano) vince se ogni volta che scende in campo rende tra il 101 e il 110 per cento del proprio potenziale. E’ questo l’humus in cui attecchiscono una goleada con la Lituania, come la vittoria ai rigori a Wembley prima con la Spagna, poi con l’Inghilterra. Ebbene, il rancido mix di cui sopra ha abbondantemente prosciugato quell’esiguo margine di vantaggio che – ripetiamo per eccesso di zelo e chiarezza – Mancini, il suo staff, la sua squadra avevano mirabilmente costruito.

Quindi? Cosa vuol dire questo? Che siamo tornati al novembre 2017, cioè alla vigilia del flop pre-mondiale contro la Svezia da parte dell’Italia di Giampiero Ventura, con una Nazionale istericamente convinta di andare comunque a Russia2018 per grazia ricevuta? No, ovviamente no. Di mezzo infatti, ci sono stagioni di lavoro duro fatto in condizioni estreme (leggasi pandemia globale) e un trofeo continentale comunque in bella mostra oggi nella sede della nostra Federcalcio.

Al tempo stesso, da qui a marzo una ripartenza è ovvia, oltreché necessaria e imposta dalle circostanze. Duro sarà arrivare ai playoff senza neanche un’amichevole, ma è una situazione uguale per tutti, quindi inutile lamentarsene. Ecco, se un nuovo spirito deve esserci, da qui, appollaiati sulla bandierina, viene voglia che tanto nuovo deve essere, da essere in fondo quello più ‘antico’. Più chiaramente: Il Mancio più bello e sfrontato da giocatore è stato quello di immaginifici colpi di tacco e fantasmagoriche mezze girate al volo; il più convincente da ct quello che seppe convocare in azzurro uno Zaniolo che mai neppure aveva calcato un campo di serie A. Ecco, forse serve quella sfrontatezza per lanciare segnali nuovi allo spogliatoio e al mondo. E poi, mai ci fosse concesso, un piccolo suggerimento: questo è il momento di allargare gli orizzonti e i propri ragionamenti, sentire parole diverse e aria nuova. E’ il momento di alzare il telefono e parlare con maestri, amici e anche – e anzi, in particolare – con voci diverse e fuori dal coro e dal solito giro. Un nome? Sandro Campagna, il ct del Settebello della pallanuoto: uno che ha vinto tutto da giocatore e (quasi) tutto da allenatore (è in fila d’attesa da tempo per l’oro olimpico da ct), e che non ha mai avuto paura di potare il suo albero rischiando di tagliare anche qualche ramo ancora verde, nell’interesse generale della pianta. Alla fine, di solito, il raccolto è stato spesso ottimo e abbondante. Sarebbe, ne siamo convinti, una chiacchierata utile e interessante, per ritrovare da qui a marzo la strada che da Wembley porta in Qatar.

*giornalista di Radio24-IlSole24Ore       

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