Simone Meloni
Carlo Delfini non è stato solo un maestro di calcio o il papà acquisito di tutti i bambini che ha allenato e cresciuto. Carlo Delfini è stato molto di più. Ha incarnato in ogni sfaccettatura lo spirito della Lodigiani, di quella incredibile e unica esperienza sportiva e di vita. Che dagli anni ’70 ha saputo scalare la piramide calcistica italiana divenendo un modello studiato e ammirato in tutto il globo terracqueo. Ed ha continuato a farlo fino a mercoledì, quando all’improvviso si è spento giocandoci uno scherzo. Terribile. Spietato. Ancora difficile da credere vero.
Lui era un pezzo di Lodigiani. Il più importante. Forse il suo cuore, volendolo raffigurare in un organo tanto operaio quanto vitale. Perché anche dopo che quella perfetta macchina biancorossa si è sfasciata, ha continuato a rappresentarla ovunque abbia lavorato. Nelle sue rinascite e nelle sue anime erranti. Perché il modello Lodigiani non aveva un confine societario o dirigenziale, ma partiva innanzitutto dalla mente di tutti quelli che lo avevano assorbito e propagato. Era come una lingua madre: impossibile da dimenticare.
Lui non è mai stato una da prima fila o voglioso di inutili e stucchevoli lustrini. Lo trovavi dentro al rettangolo verde nelle ore e nei giorni più improbabili. Perennemente bardato con felpe e cappelli in inverno, splendidamente in polo o t-shirt quando la canicola estiva picchiava forte. Pronto a scherzare, incazzarsi e dare consigli nel giro di dieci minuti.
Ho imparato a conoscerlo negli ultimi due anni, quando giocoforza mi ci sono trovato a lavorare vicino quasi tutti i giorni. Mister Delfini, come era proverbialmente conosciuto, era un teorema inverso ai protagonisti del calcio contemporaneo. Benché avrebbe tranquillamente potuto far sfoggio di un minimo di superbia. Ma sapeva bene che proprio l’ergersi un gradino più alto del suo interlocutore o dei suoi colleghi lo avrebbe depotenziato. Gli avrebbe tolto quel carisma e quella personalità che invece gli hanno permesso per anni non solo di emergere, affermarsi e lavorare sempre e comunque con i suoi metodi e con le sue credenziali, ma di essere il numero uno.
Perché solo uno che primeggia può permettersi il lusso di trovare idee, forza di volontà, competenza e caparbietà di un ventenne a quasi ottant’anni. Un ordine mentale spaventoso e un entusiasmo che se contagiasse anche solo il dieci percento del nostro movimento calcistico nazionale permetterebbe almeno di rialzarci e tornare a lavorare con obiettivi concreti e realizzabili.
Tutto d’un tratto capisci di aver perso un pezzo dello sport che ami e che, nel bene e nel male, condiziona quotidianamente la tua vita. Tutto d’un tratto comprendi di aver dato sin troppo per scontata la sua presenza. Al campo, ai pranzi e alle cene con tutta la squadra, ai tornei fuori Roma dove lui – salutista per eccellenza – imponeva una ferrea dieta ai suoi ragazzi. Oppure durante i centri estivi, quando pur di non perdere una partita a calcio-tennis era pronto a spostare le linee del campo o invertire le battute. E poi in quelle chiacchierate spontanee sul pallone. Con l’immancabile Corriere dello Sport tra le mani.
Ripenso a una delle ultime volte che mi accompagnò alla metro, con la sua macchina in cui trovavi sempre, minimo, un qualcosa di biancorosso e un qualche foglio con appunti presi in campo. Si alterò perché ero impegnato ad aggiornare i profili social della società e mi disse: “Se devi far finta di sentirmi non ti parlo proprio!”. Avevi ragione Carlo, scusami. Anche se è troppo tardi. Spesso capiamo di non dar attenzione a ciò che di bello ci circonda solo quando lo perdiamo. Ed è troppo tardi. Troppo tardi per carpirne tutto il bene e tutti gli insegnamenti.
Scusami anche per quelle foto che mi chiedevi da mesi. E che io tutte le volte ti promettevo salvo poi dimenticarmene. Ci tenevi a vederti in campo con i tuoi ragazzi, mentre facevi quello che più amavi e per cui eri nato: insegnare calcio.
Ieri a Tor Sapienza ho visto tanti occhi lucidi. Ho visto tanti ragazzini piangere a singhiozzo, quasi isolati in uno dei loro primi dolori. Quei piccoli calciatori se li era tirati su con orgoglio e ne parlava sempre con il sorriso sulle labbra. Anche quando lo facevano inviperire perché magari li vedeva svogliati o non ascoltavano i suoi suggerimenti. Perle di saggezza e conoscenza che chi l’ha circondato ha sicuramente appreso e potrà continuare a spendere nel proprio futuro.
Uno che è passato per le “grinfie” di mister Delfini, un tale Luca Toni da Pavullo nel Frignano – “giocatorino” con un Mondiale nel cassetto e qualche titolo di capocannoniere in tasca – ha perfettamente riassunto il personaggio: “Ho un ricordo bellissimo di lui – dice – assieme ad Attardi mi hanno fatto da genitore quando sono arrivato alla Lodigiani. Erano persone affabili, che avevano sempre la parola giusta nei momenti di difficoltà. Un grande peccato averlo perso, è stato un personaggio che ha fatto del bene al calcio e a tutti i giovani che ha allenato!”.