Salvatore Savino *
C’era una volta, in una grande città, un bambino di circa sette anni che, come tutti gli altri bambini della sua età, andava a scuola e poi giocava con i suoi amici A loro bastava un pallone ed uno spazio per immaginarsi un grande stadio. Le regole cambiavano in base al campo: se lo spazio era stretto, valeva il battimuro, cioè si poteva fare rimbalzare la palla lungo le pareti laterali, e non esisteva la rimessa. Se invece in porta, e capitava spesso, si mandava il più piccolo del gruppo, che pur di giocare con i grandi accettava il ruolo, si stabiliva la traversa “ad occhio”, in base alla sua altezza: se, saltando in alto, a braccia tese, non arrivava a prendere il pallone, il tiro si considerava, come si diceva nelle radiocronache, alto sulla traversa. Le regole sulle dimensioni della porta avevano anche una variante estiva, quando si giocava sulla spiaggia, ed allora i pali, o, meglio, le basi dei pali, erano fatte dalle ciabatte, in genere quelle della misura più grande, tenuti in piedi da montagnelle di sabbia, rinforzate con l’acqua di mare riportata nei secchielli, sempre dei più piccoli, inconsapevolmente vessati dai più grandicelli. Lì era veramente difficile stabilire se un tiro fosse finito dentro o fuori dello specchio immaginario della porta, ed allora spesso ci si affidava al Var dell’epoca: si chiedeva ad un ignaro bagnante di passaggio, di confermare con autorevolezza se si trattasse o meno di gol e spesso, per non prendere decisioni contrarie ad un bambino piuttosto che ad un altro, la decisione salomonica, regolamento immaginario alla mano, diventava: poiché non si capisce bene se è entrato o meno, allora si tiri un calcio di rigore. Proteste di tutti, di qua e di là, poi si batteva il rigore, che ovviamente doveva calciare l’autore del tiro dubbio che aveva originato il tutto. Anche la durata delle partite aveva un regolamento a parte: non è mai stata basata sul tempo, anche se appare paradossale” si giocava finché c’era la luce del sole, ma in realtà anche la penombra tarda dell’estate era considerata idonea e andava benissimo. Si giocava finché una delle mamme richiamava per la cena, ed allora, da quel momento, scattava la doppia possibilità: se la partita era in equilibrio, chi segna vince. Se il risultato era già scritto nel punteggio, la soluzione alternativa era: ” mamma, aspetta che stiamo rimontando”. Questa opzione valeva però soltanto, ed era considerata credibile, se lo scarto di gol era minore di cinque. Questo bambino, come tutti gli altri o quasi, aveva il pallone come centro di molti giochi, e quando non c’erano partite da giocare, ci si metteva sul muretto del parco e ci si scambiava le figurine dei calciatori, quelli veri. Pacchetti di figurine che cambiavano proprietario secondo la lettera dell’iniziale dei giocatori, o secondo il numero della figurina, o arrossandosi i palmi delle mani cercando di farne rovesciare quanto è più si riusciva, senza barare però piegandole prima. Il bambino a casa, ascoltava il papà, il nonno, lo zio, che seguivano le partite alla radio, e cominciò ad amare i nomi che sentiva dire da loro: Canè, Iuliano, Clerici, e non riesco a spiegare a parole l’entusiasmo che provava quando, aprendo l’ennesimo pacchetto comprato in edicola, usciva la figurina di uno di loro: al cambio, ne valeva almeno venti, un po’ come quella introvabile del portiere Pizzaballa dell’Atalanta. Il bambino aveva un sogno nel cuore, e non poteva sapere che questa frase l’avrebbe poi urlata a squarciagola, qualche decennio dopo: andare con i grandi a vedere la partita, e un giorno, un meraviglioso giorno, questo accadde. Quando, con le gambe tremanti, salì l’ultimo gradino delle scale, gli si aprì davanti agli occhi quello che era stato sempre il suo sogno: il prato del San Paolo gli sembrò enorme, l’erba era talmente verde nel suo sguardo, che quasi ne percepiva la morbidezza ed il fresco delle foglioline. L’amore vero però, quello che fa battere il cuore, quello che scandisce i ritmi della tua vita, che ti fa piangere di rabbia e di gioia, sarebbe apparso qualche minuto dopo. Eccola, la maglia del Napoli. Mentre i calciatori raggiungono il centro del campo, il bambino non vede più juliano e Bruscolotti, vede solo la maglia azzurra, e se ne innamora perdutamente, non lascerà mai più. Il tempo passa, e gli anni cambiano la vita: tanti di quelli che gli avevano trasmesso questo amore sono ormai in cielo. Il bambino è un uomo anzi, è lui adesso ad aver trasmesso l’amore per il Napoli a chi è venuto dopo. Quest’anno però, il bambino che era cresciuto, è voluto tornare per un po’: ha voluto rivivere quelle emozioni e quella gioia, come se ci fossero ancora tutti, i nonni, i genitori, e persino qualcuno di quei ragazzini che, per uno strano scherzo del destino, erano già andati via. È partito con una sconfitta il sogno, amara e triste, e nulla lasciava ben sperare: umiliati a Verona era il modo peggiore per iniziare il campionato, e già i profeti di sventura vaticinavano il crollo di ogni speranza, la fine di ogni sogno. E invece il sogno non solo è cresciuto, ma è diventato realtà. È un pomeriggio di maggio, ma c’è un sole che sembra estate. Una meravigliosa sirena, distesa tra due vulcani accesi di passione, sembra accogliere nel seno il mare, e davanti a quello stesso mare, centinaia di migliaia di persone, tutte vestite da azzurro, fanno da cornice e da abbraccio a due autobus scoperti: dai tetti, i giocatori, il tecnico i dirigenti, dispensano sorrisi e saluti, mostrano la coppa con l’orgoglio di chi, inaspettatamente, ha vinto contro tutto e tutti. Sul marciapiedi, un po’ in disparte, un bambino di circa sette anni, che ora però ha i capelli bianchi e le lacrime agli occhi, guarda da lontano suo figlio, che sventola una enorme bandiera in mezzo a tanti altri ragazzi. L’amore per il Napoli continua, di padre in figlio, ed ora li vedo allontanarsi, felici, insieme, forse raccontandosi di voler vincere la Champions. Forza Napoli Sempre
*Scrittore, tifoso Napoli