Il ricordo di un momento

Salvatore Savino *

L’aria stamattina è profumata di buono: a casa, il tavolo della colazione è imbandito, e il fumo del latte caldo sale verso il soffitto, mentre già si sente il crocchiare dei biscotti e delle fette imburrate. C’è qualcosa di incredibile che sta per accadere: sembra la sera della vigilia di Natale, quando i bimbi non sembrano attendere altro che l’arrivo dei doni. Sto per vestirmi quando, nel corridoio, il passo ritmicamente lento delle pantofole del nonno si avvicina alla mia stanzetta. Ho vent’anni e mezzo, ho, incredibilmente, la stessa identica età che adesso ha mio figlio. Nonno entra, e mi guarda; vorrebbe dire qualcosa, ma esita, si trattiene, come se, in questo momento, aprire il cuore sarebbe per lui tanto commovente da non riuscire a fermare le lacrime. Lo guardo negli occhi, e in quel momento si rasserena: sa che ho capito, che ho fatto mio il suo pensiero, sa di avermi detto esattamente quello che voleva, pur senza proferire verbo. Mi alzo, mi avvicino a lui e lo bacio sulla guancia, mentre con la mano gli accarezzo la schiena, coperta dalla solita canottiera bianca. Mi sembra di sentirlo ancora quel contatto sulle mie dita…Un salto per salutare nonna, che sta facendo i serviz: – Nonninella, io allora vado – – Stai attento, mi raccomando, e prenditi la busta con i panini, che è ancora presto adesso, e fino a che tornate…si farà tardi – – Non ti preoccupare nonni’, sto attento -. Afferro la busta delle merende e scendo. Ci vediamo con gli altri e cominciamo a scendere lungo la strada. La sensazione non riesco a descriverla, ma è come se il mondo in quel momento fosse fermo, come in una fotografia. Ovunque oriento lo sguardo, bandiere azzurre, striscioni, paletti stradali, tutto inneggia a qualcosa che per me era talmente grande da non riuscire nemmeno a rendermene conto Arriviamo al San Paolo tante ore prima che cominci la partita, ma nessuno se ne accorge: siamo tutti ubriachi di felicità. Salire le gradinate dei distinti e avere il raggio di sole sul viso riscalda il cuore, e da quel momento è tutta una incredibile meravigliosa attesa. Sembra di vivere in un sogno quando le squadre entrano in campo: non esistono i telefonini, quindi qualcuno fotografa, gli altri imprimono le immagini nel cuore e negli sguardi. Un tocco di classe di Bruno Giordano libera Carnevale davanti al portiere, e lui, con un tocco, fa’ rotolare il pallone in porta. Sul tabellone, i risultati degli altri campi ci dicono che stavolta non è un sogno, è tutto vero. I riccioli di Diego saltellano per il campo, per quello che riesco a vedere dietro il velo delle lacrime che sgorgano dei miei occhi. D’un tratto, mi sento tirare per un braccio. Mi volto, e un signore anziano, dai capelli bianchissimi, con la voce rotta dall’emozione, mi dice:   – giuvinò, mi potete abbracciare? Sapete, sono venuto da solo, ma voglio abbracciare a qualcuno…-  Non rispondo, allargo le braccia e lo stringo al petto, per un tempo che mi sembra  meravigliosamente interminabile. Il fischio dell’arbitro Pairetto certifica che il sogno adesso è diventato realtà. Mi giro intorno, e vedo Rosario, zio Franco, che furono i primi che mi portarono allo stadio da bambino, che adesso, come tornati loro bambini, si tengono per mano, e cantano, e saltellano felici. Torniamo verso casa tra migliaia di persone che cantano, piangono, si abbracciano, macchine che suonano i clacson senza sosta, e persino ragazzi che, con un barattolo di vernice, dipingono di azzurro l’asfalto. Sotto casa, rivedo don Mario il salumiere, aperto di domenica per distribuire i panini e pizzette in mezzo alle bandiere che sventolano. Salgo le scale con il cuore che scoppia di gioia nel petto, entro in casa, prendo la nonna in braccio dimenticandomi dell’età, e la porto in giro per la casa, come un trofeo. In camera da pranzo, il nonno, seduto nella sua poltrona dai manici consunti, ma che non voleva mai cambiare, mi sorride, nonostante due lacrimoni che gli rigano il volto. Dei protagonisti di questo racconto, sono rimasto solo io… on ci sono più i nonni, Rosario, zio Franco, Don Mario, e sicuramente, non c’è più nemmeno il vecchietto dei distinti. E non c’è neanche quel genio d’amore con i riccioli che saltellava per il campo, ma grazie al mio Napoli, tutti loro hanno avuto la possibilità di vivere il sogno:    era il 10 maggio del 1987.

PS : raccontatela a chi quest’anno, società, allenatori, calciatori, ha gettato fango sul mio Napoli, solo un anno dopo averlo rivinto lo scudetto… Ma ci rifaremo, torneremo e rivivremo quei momenti: lo dobbiamo proprio a quelli che non ci sono più, ma che, da lassù, insieme a Diego, continuano a tifare azzurro… Forza Napoli sempre

*Scrittore, tifoso Napoli

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