Salvatore Savino *
Non é un giorno qualunque, non é un tempo qualunque, e non possiamo fingere di non vedere quello che ci circonda. Domani sarebbe la giornata in cui si celebra chi ci ha dato la vita, ed invece a tanti bambini il papà viene strappato da una guerra crudele, sporca e, come tutte le guerre, inutile e stupida. Ne parliamo tra qualche rigo, dopo aver chiacchierato un po’ del Napoli. Tra qualche ora sarà al Maradona l’Udinese, ancora una volta modificata negli uomini e nel tecnico dalla mano esperta di PierPaolo Marino e dalla famiglia Pozzo. Una squadra scorbutica, fisica ma veloce, in grado quindi di creare problemi alla compagine di Spalletti. Sarà il tecnico toscano a dover trovare le chiavi per aprire il lucchetto friulano e portare a casa la vittoria. La prima delle dieci finali, quella del Bentegodi, é stata vinta con merito, ora bisogna vincere questa, e abbiamo tutte le carte in regola per farlo. Spalti di nuovo pieni, tifo azzurro sull’onda dell’entusiasmo, tanta voglia di vincere per credere allo scudetto. Anche prima del Milan era tutto così, bisogna farne tesoro: tutti allo stadio, prima cori e bandiere, durante, silenzi e timori e, al termine della partita, persino i fischi. Non deve andare così. Chi vuol essere accanto alla squadra, lo faccia con amore cieco, canti, incoraggi, dia la spinta ai nostri ragazzi, perché in campo provino a vincere con tutte le loro forze. Lasciamo a casa le critiche, i preconcetti, le antipatie per questo o quel giocatore, le disquisizioni sui tempi delle sostituzioni. Chi va al Maradona, tifasse senza sosta, cantasse come non ci fosse un domani, e portiamo a casa un’altra ” finale “, senza nemmeno curarci delle avversarie. Senza questa voglia di tifare, forse sarebbe meglio non andare allo stadio, magari non sentirla nemmeno alla radio la partita, ma dedicarsi ad una passeggiata, andare a pranzo fuori, portare due zeppole a casa di mamma’, ma non pensare al Napoli. Il Napoli è di chi ama, di chi piange per la maglia, di chi sogna di rivedere il tricolore, magari proprio per dedicarlo ad un papà che lo ha portato per la prima volta da bambino allo stadio e adesso lo vede dal cielo. Lasciatelo a noi questo Napoli, a noi che lo amiamo senza se e senza ma, a noi che non ci interessa il Presidente, a noi che non riusciamo a mangiare prima se la partita è alle 15, a noi che anche se Spalletti cambia al settantesimo non ci interessa, a noi che il modulo a due o a tre non ci cambia nulla. Sappiamo e possiamo affrontare questi argomenti tecnici e tattici, ma non adesso. Ora é il tempo delle dieci finali. Superata la prima, ora siamo alla seconda, e contro i bianconeri (basterebbero i loro colori per accendere la fiamma del cuore dei nostri ragazzi) abbiamo un solo desiderio, vincere. Per tutti i papà che hanno preso per mano i loro figli e, salite le gradinate del nostro stadio, hanno trasmesso l’amore per la maglia azzurra, per tutti loro, nel giorno della loro festa, il Napoli deve vincere, e lo farà. Una partita di calcio, una battaglia sportiva da cui provare ad uscire vincitori, queste dovrebbero essere le uniche lotte di cui parlare, ed invece siamo costretti a vedere ben altro. I bambini devono giocare, non morire, devono rincorrere una palla o giocare a nascondino, non scappare terrorizzati in una cantina sotto i fischi e le deflagrazioni delle bombe, senza capire e senza sapere se ne usciranno. I bambini devono festeggiare domani i loro papà, non vivere nell’angoscia di non rivederli più. E i soldati? Tutti, di entrambi gli schieramenti, strappati alle madri, alle fidanzate con cui sognavano l’amore, e di cui magari ora sono nemici, perché fino a poche settimane fa essere nati uno a Mosca ed una a Kiev poteva essere solo un problema di distanza, che impediva di baciarsi ogni giorno, e magari farsi un selfie abbracciati, un giorno sulla Piazza Rossa, davanti alle cupole di San Basilio e la volta dopo a piazza Sofiyska, sul sagrato di Santa Sofia. Cosa sono ora questi ragazzi? Incerti del loro stesso sopravvivere, impauriti, esposti alla violenza delle armi e, come nelle parole di Ungaretti, “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. L’ emblema del dolore della guerra e della stupidità umana nelle parile e nella storia di Alan Seeger: “Ho un appuntamento con la morte, in una controversa barricata, quando la primavera ritorna con ombra frusciante e fiori di melo riempiono l’aria…Ho un appuntamento con la morte a mezzanotte, in una città fiammeggiante, quando la primavera viaggerà di nuovo a nord quest’anno. E io, per quanto vera sia la mia parola, non mancherò a quell’appuntamento”. Alan Seeger morì in battaglia, nella prima guerra mondiale, a Belloy en Santerre, nel 1916. I suoi genitori donarono in sua memoria una campana alla chiesetta accanto all’ossario dove riposano tanti soldati di quella guerra, e fecero piantare alberi di melo. La crudeltà e la stupidità dell’uomo però, non hanno mai fine, e nella seconda guerra mondiale, nel 1944, tutto fu raso al suoli da altre bombe. Esistono però la speranza e la fede: i pezzi della campana distrutta furono fusi con altri, e si costruì una nuova campana, che ancora risuona per il ricordo di quei ragazzi. E qualcuno dice che un melo, un solo alberello di melo, abbia resistito a tutto questo dolore, e ricordi a tutti che la primavera torna sempre…Vogliamo la pace.
Forza Napoli Sempre
*Scrittore, tifoso Napoli