*di Dario Ricci
La variante Omicron, la “scoperta” della Coppa d’Africa, le coppe europee che non finiscono mai, la Fifa che vuole imporre la proposta del Mondiale di calcio ogni due anni. Niente illusioni: anche il 2022 sarà un anno tribolato, quindi conseguentemente (anche) sotto il profilo calcistico. Basti solo pensare che si chiuderà col mondiale qatariota, sì quello che oggi fra un anno saremo ancora a commentare la finalissima, che a quest’ora si sarà disputata da appena cinque giorni; sì proprio il Mondiale d’inverno la cui assegnazione (congiunta a quella di Russia2018) segnò l’apogeo e al tempo stesso l’inizio della fine del regno/regime di Joseph Blatter sul governo del calcio globale. Che da quel terremoto ci si sia tutt’altro che ripresi lo dimostra un’infinità di evidenze, schematicamente già riassunte nell’incipit di questo “calcio d’angolo” medesimo: calendari e formule che stanno divorando il calcio mondiale, logorandolo per autocombustione, con la sensazione chiara e ben percepibile che il peggio debba ancora venire (sì perché se lo si vuole si può far anche peggio che ideare una Lega che premi, alla fine, la miglior settima squadra d’Europa, eliminando inoltre dal torneo stesso una delle squadre favorite per impossibilità di fissare, causa calendari in ipossia, il recupero di una sua gara rimandata causa Covid….per chiarezza: ogni riferimento alla Conference League e a Rennes-Tottenham non è puramente casuale…).
Nel marasma, si prova a rimanere con lo sguardo fisso sul terreno di gioco, affinché quelle scarne geometrie fungano anche da assi cartesiani d’orientamento in questo periglioso presente pallonaro. Chi la rotta sembra smarrirla con irrisoria facilità, soprattutto il quello stadio consacrato al mito che ne fu il re, è il Napoli, che incassa con lo Spezia il terzo k.o. di fila al “Maradona’” per giunta dopo aver regolato con autorevolezza il Diavolo in persona a San Siro. E’ come se la banda Spalletti venisse risucchiata in fondo al gorgo ogni qual volta provi a riprendere fiato, dopo essersi fatta largo tra infortuni, avversarie, autogol, gollonzi, pali e traverse (anche ieri quella di Elmas, che sarebbe valsa il pareggio in pieno recupero). E poi eccola, la Coppa d’Africa che incombe, il “mostro” che fa scomparire i giocatori dagli spogliatoi, come l’ha definita proprio Spalletti (e a lui – e pure al Milan – ne spariranno di belli, se pensiamo solo a gente tipo Koulibaly, Osimhen, Kessie e Bennacer). Ora però stupisce lo stupore, direbbe forse il principe de Curtis, alias Totò, in persona. Perché la Coppa d’Africa è trofeo continentale al pari degli altri, e certo il fatto che la Confederazione continentale e il Camerun abbiano fatto di tutto per poterla disputare (dopo il rinvio dello scorso anno), non può sorprendere dirigenti e allenatori del più alto rango mondiale. Insomma, non ci si poteva pensare forse al momento della campagna acquisti e della composizione delle rose, e operare a quel punto sì con maggiore oculatezza e raziocinio?
Paradosso su cui varrà la pena poi ritornare in futuro, il “mal di casa” accomuna al Napoli anche l’Atalanta di Gasperini, che proprio a Bergamo, quando sente sulle spalle il caldo abbraccio del Gewiss Stadium, è finora scivolata in modo più fragoroso (senza trascurare – aggiungendolo a quelli in campionato – lo scivolone col Villareal che è valso agli orobici la “retrocessione” dalla Champions all’Europa League). La tesi è ardita, ma si ritiene opportuno comunque esporla, perché possa essere oggetto di riflessione comune: è come se la Dea si scoprisse – in determinate occasioni decisive e più spesso davanti al pubblico amico – qualcosa che ancora non è, che forse un giorno sarà ma che al tempo stesso non sa ancora se vorrà essere, e cioè una signora matura e cinica, parsimoniosa ed efficace e al limite crudele, in buona parte diversa da quella che attualmente è. E – altro paradosso su cui ragionare – solo ora forse si riverberano su spogliatoio, panchina e club le onde lunghe di quello tsunami che è stata la traumatica rottura del rapporto con un giocatore-simbolo (e leader tecnico ed emotivo) come il Papu Gomez. Un trauma che a volte riemerge anche quando la Dea manda in onda le sue versioni più belle, e che insieme all’eclissi e alla difficile rinascita di Ilicic e alla perdurante assenza di Goosens, impedisce a Bergamo di toccare con mano – e perché no? Magari finalmente afferrare – quel sogno di cui ancora ha pudore a pronunciare il solo nome.
* Giornalista di Radio24-IlSole24Ore