Delirio Liverpool: la Champions è nostra

Giorgio Capodaglio

LIVERPOOL Il sole tarda a far capolino tra le nuvole, il vento soffia forte dai Docks e la città si risveglia lentamente come ogni sabato mattina. Ma questa, però, non è una giornata come le altre per Liverpool, i Reds da lì a poche ore si giocheranno la finale di Champions League per il secondo anno consecutivo. A metà mattinata le strade della città iniziano a riempirsi di gente, nell’aria si sentono vibrazioni di euforia, un clima di festa: questa volta i tifosi del Liverpool non hanno dubbi, è l’anno dei Reds. Maglie rosse ovunque, fumogeni, canti, tanto alcol come da tradizione, sorrisi e soprattutto persone provenienti da ogni parte del mondo. In fin dei conti è peculiarità di Liverpool abbracciare e ospitare lo straniero, aprirsi agli altri. Una città formata da immigrati provenienti da Irlanda, Galles e Scozia con lo spirito orgoglioso e proletario della working class, che ha la più antica comunità cinese in Europa e negli ultimi anni si è riempita di arabi, indiani, africani, brasiliani (c’è anche un festival brasiliano in città) e italiani che stanno aumentando a vista d’occhio in barba a quella Brexit ovviamente respinta dal popolo scouser.

“We are scouser, not english” campeggia all’interno dell’Olympia Theatre, dove abbiamo assistito al match insieme ad altre duemila persone attraverso un maxischermo adibito per l’occasione, a rivendicare orgogliosamente una sorta di distinzione dal resto d’Inghilterra. Un mini concerto tra cori del Liverpool (sempre gettonatissimi il famoso “Allez, Allez, Allez”, sulle note della canzone dei Righeira “L’estate sta finendo”, e il coro dedicato a Roberto “Bobby” Firmino) e canzoni dei Beatles (emozionante ascoltare “Imagine” di Lennon, cantata da tutti i presenti, a pochi minuti dal fischio d’inizio). Poi il via del match e l’immediato penalty trasformato da Salah al quale è seguita un’esultanza tra docce di birra, coca cola e succhi di frutta (si, c’è anche chi beve succo di frutta a Liverpool). Il clima è caldissimo, si canta “we shall not be moved”, ma l’euforia con il passare dei minuti viene oltrepassata dalla tensione, la stessa che è evidente anche a tanti chilometri di distanza sul prato verde del Wanda Metropolitano. Il volume si abbassa e nel finale si sentono quasi i respiri affannosi dei tifosi, quando il Tottenham inizia ad attaccare. Van Dijk fa però esultare tutti con un intervento da pallone d’oro su Son salutato come un gol, Alisson fa tre parate consecutive facendo comprendere a tutti che quest’anno la porta del Liverpool ha un muro invalicabile. Dopo tanta tensione, finalmente, a due minuti dalla fine arriva il “roar” di liberazione dalla folla, quando Origi, novello Fairclough, risulta ancora una volta decisivo dalla panchina, battendo Lloris con un chirurgico diagonale e consegnando così la sesta Coppa dei Campioni al Liverpool. Urla, sconosciuti che si abbracciano come se fossero amici da una vita condividendo anche qualche lacrima e la festa si trasferisce per le strade.

Una lunga notte quella di Liverpool, seguita da una domenica ancora più magica. 750 mila persone riempiono le vie di una città che in realtà ha solo cinquecentomila abitanti. Persone provenienti non solo da Liverpool, ma da tutta Europa sono presenti per ringraziare i Reds. Tra essi anche una folta rappresentanza italiana del Liverpool Italian Branch, sempre in prima fila per sostenere i rossi con numerosi viaggi nel corso della stagione (per info: www.liverpoolitalia.it). E davvero si supera ogni steccato culturale, non esistono colori o religioni, ci si abbraccia, si fa festa insieme, Liverpool è ancora più “welcoming” del solito. Ore di attesa, poi eccoli gli eroi con a capo lui, il novello Shankly, quello Jürgen Klopp nato per allenare il Liverpool, un uomo entrato subito in simbiosi con il suo popolo e capace in quattro anni di risollevare una tifoseria depressa dopo tante delusioni e gli addii in pochi anni di Carragher, Suarez, Sterling e soprattutto Steven Gerrard. I giocatori si godono lo spettacolo, guardano le persone appese ai lampioni, sugli alberi e notano anche qualche tifoso dell’Everton che orgogliosamente esce con la propria maglia a guadagnarsi il rispetto dall’altra parte di una città malata di calcio, tornata oggi al centro del mondo, grazie a un tedesco che, come il suo predecessore scozzese tra gli anni sessanta e settanta, sa come fare felice questa gente figlia della working class.

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