Calcio in lutto, è morto Gigi Radice: vinse uno scudetto con il Torino

L’uomo dell’ultimo scudetto granata se ne va. Si è spento a 83 anni Gigi Radice, da tempo affetto da Alzheimer e al quale, un paio di settimane fa, è stata dedicata una biografia il cui titolo – “Il calciatore, l’allenatore, l’uomo dagli occhi di ghiaccio” – ben riassume la vita del personaggio. Brianzolo di Cesano Maderno, classe ’35, era stato un terzino sinistro che, dopo essersi fatto le ossa alla Trestina e al Padova, era tornato al Milan, dove era cresciuto, diventando protagonista della squadra del Paron Rocco prima campione d’Italia e poi d’Europa. Un brutto infortunio al ginocchio ne tronca la carriera ma Radice non si perde d’animo e qualche anno dopo inizia ad allenare. Parte dal Monza, nel 1966, e si presenta come uno dei tecnici più innovativi del momento: pressing a tutto campo, ricerca degli spazi, l’uso del fuorigioco come arma tattica. Al primo anno centra la promozione in B e in quello dopo la salvezza. Siederà poi sulle panchine di Treviso, ancora Monza, Cesena – che porta per la prima volta nella massima serie – Fiorentina, Cagliari e poi, nel 1975, l’approdo al Torino. Dove si ritaglia il suo piccolo grande spazio nella storia: alla prima stagione centra la conquista dello scudetto, il primo del Toro dopo Superga. Radice resterà fino al 1980, poi seguiranno le esperienza con alterne fortune con Bologna, Milan, Bari, Inter, ancora Torino – dal 1984 al 1989 -, Roma, Bologna e Fiorentina. Coi viola, nel campionato ’92-93, volò fino al secondo posto, poi un leggero calo e la lite con Vittorio Cecchi Gori che lo esonerò nonostante la squadra fosse sesta. Ripartirà da Cagliari, per poi guidare il Genoa e infine il Monza, dove tutto era iniziato, che riporta in B salvo poi essere esonerato nel corso della stagione ’97-98. Fu la sua ultima avventura, poi qualche anno dopo i primi sintomi dell’Alzheimer e l’inizio di una lotta impari che lo ha visto arrendersi solo in queste ore. Il calcio piange il suo “tedesco”, questo il soprannome che gli era stato affibbiato perchè, come raccontò il figlio Ruggero, “non aveva un carattere facilissimo, era un sergente di ferro. Rifiutava i compromessi, proseguiva di testa sua, anche per questo era stato in panchina per 30 stagioni”. E anche per questo è stato Gigi Radice.